Gay Pride: sì o no?
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Non voglio focalizzarmi sul contenuto ma sul contenitore, cioè il mezzo scelto per la massima diffusione del messaggio.
Ognuno ha diritto di esprimere la propria individualità. Non è una concessione, ma una precondizione della convivenza civile, qualcosa che va oltre leggi e codici e affonda nelle radici stesse del buon senso. Di pari passo, dall’espressione di una peculiarità non dovrebbe scaturire né scherno né tantomeno odio e/o persecuzione perché il rispetto è la base di qualsiasi società che voglia definirsi civile.
Procediamo sul percorso delle massime. La libertà di un singolo non può ledere la libertà di un altro – e spero che anche su questo possiamo essere tutti d’accordo (altrimenti possiamo sempre provare a trasferirci in un paese dove questo non è accettato e vedere se ci troviamo meglio, e se ci va bene magari possiamo restarci).
L’esorcismo sociale
La libertà di manifestare il proprio pensiero è la pietra angolare della democrazia (che tanto cara ci è costata), ma presuppone una responsabilità: il rispetto dei confini che permettono a tutti di convivere. Non a caso il codice stabilisce limiti precisi a ciò che si può mostrare o dire in pubblico: è una barriera che difende la dignità collettiva.
Le manifestazioni organizzate per sensibilizzare il grande pubblico al tema dell’omosessualità sono un sacrosanto diritto, ma certe esibizioni che si possono fruire al loro interno no, quelle non lo sono.
Antropologicamente, l’eccesso come forma di esorcismo sociale ci appartiene: lo celebriamo ogni febbraio col carnevale, un rito collettivo di sovversione che da sempre l’uomo utilizza per incanalare quello che nella vita ordinaria sarebbe fuori luogo o impossibile. E’ qualcosa di collettivo, che tutti riescono a «leggere» e a far proprio.
Quello che può accadere nei Pride invece è un tipo di provocazione fine se stesso con un messaggio che rischia di perdersi. L’eccesso non spinge ad accettare la diversità. Crea anzi distanza, rafforza diffidenze e stereotipi.
Crea sollievo constatare l’impegno ad arginare certi eccessi visti negli scorsi anni (o forse a evitarne la divulgazione, non lo sappiamo con certezza), ma c’è ancora diversa strada da fare.
La narrazione
Ricordiamoci che influenzare l’opinione pubblica (convincere le persone a fare ciò che prima non avrebbero mai preso in considerazione) richiede una buona narrazione. Le cose vanno raccontate bene, con tatto e per un periodo congruo alla grandezza dell’obiettivo. Servono pazienza e intelligenza. Mostrare le chiappe mentre si struscia la lingua con un pari sesso non è una strategia vincente (tanto più che molte persone gay, che hanno a cuore una reale integrazione, prendono le distanze da quel genere di esibizionismo).
La storia ci dice che la narrazione collettiva – cioè la capacità di costruire e condividere storie, miti e sistemi simbolici – è stato l’unico elemento che ha permesso a piccoli gruppi di superare la frammentazione tribale, permettendo loro di vivere insieme. Da lì sono nati sistemi organizzati che hanno dato vita alle città-stato e successivamente a regni, imperi e Stati (a volte accrescendo il vantaggio, a volte favorendo lo svantaggio, ma questa è un’altra storia). Pensate quindi quanto è potente e importante una buona narrazione.
Ma c’è da chiedersi se, allo stato attuale delle cose, in Italia ci sia ancora necessità di parlare di ‘resistenza arcobaleno’: un orientamento sessuale diverso (o alternativo) non è più un tabù. Direi anzi che è discretamente accettato e abbastanza ben rappresentato. Pur tuttavia con la dovuta cautela perché si tratta di un percorso in itinere; sicuramente il gap culturale tra eterosessualità e omosessualità non è stato ancora colmato del tutto (c’è differenza, ad esempio, tra grandi città e periferie, province) ma siamo su un’ottima strada.
Diverso se si parla di violenza, ma il motivo per cui si scatena non può mai essere rilevante: sarebbe assurdo differenziare la violenza omofobica da quella di genere, religiosa, economica eccetera. Nascono tutte dal bisogno esacerbato di affermare potere e controllo sull’altro, spesso come risposta a paura, insicurezza o minaccia percepita verso la propria identità, status o visione del mondo. Non c’è giustificazione e non può esserci etichetta differenziatrice.
Parlando dell’estero sì, lì c’è ancora molto da fare. In alcune parti del mondo (non devo dirvi quali, vero?) troviamo la resistenza vera, quella al tir dell’evoluzione civile. Ma nel calderone con c’è solo l’omosessualità, c’è tutto il mondo dei cliché della visione maschiocentrica, con tutto quello che ne deriva. A farne le spese sono anche le donne, la libertà d’espressione, le minoranze etniche e culturali, i bambini… la democrazia stessa, che neanche è contemplata.
I bambini e i ragazzi
Tornado sulle deviazioni da una corretta comunicazione di questi temi, occorre affrontare con particolare cautela la questione dell’infanzia e dell’adolescenza. All’interno dei Pride sono sorte alcune iniziative, rivolte ai bambini dai 6 anni in sù, con il dichiarato intento di promuovere l’accettazione della diversità sin dalla più tenera età. Alcuni di questi progetti sono stati presentati come risposta a richieste provenienti dai genitori, in particolare dalle madri.
Si può certamente comprendere che alcuni adulti avvertano disagio nell’affrontare argomenti complessi con i loro figli, ma gli ambienti consueti per trasferire questo genere di nozioni sono proprio la famiglia, quale luogo protetto, e la scuola, che può e deve operare all’interno di un percorso educativo strutturato, fondato su basi pedagogiche e metodologiche solide e condivise (magari sulla condivisione di un metodo strutturato si potrebbe fare di più, perché la sensazione è che ogni educatore vada per la sua strada, e che questo possa lasciare spazio a sentiment individuali).
Personalmente non delegherei mai questa funzione a persone la cui preparazione non sia consolidata. Ma non lo farei anche qualora ne avessi la certezza perché affidare una funzione tanto delicata a figure sconosciute a me e a mio figlio/a mi procurerebbe molteplici dubbi. Perché crescere è un processo delicato, disseminato di fragilità e passaggi critici; un intervento inadeguato può facilmente tradursi in un danno, anche involontario.
L’identità personale è qualcosa che si acquisisce a stadi successivi, ognuno dei quali comporta una rinegoziazione interna di valori, ruoli e appartenenze. Soprattutto durante l’adolescenza (tra i 12 e i 18 anni), si manifesta una fisiologica crisi d’identità: l’individuo mette in discussione ciò che ha appreso, riconsidera desideri, progetti, relazioni. In questa fase il senso di sé è un cantiere sempre aperto, dove la pressione non è soltanto interna, ma arriva in modo massiccio anche dall’esterno – scuola, gruppo dei pari, media. Intervenire in modo scomposto o impositivo in un momento tanto sensibile può influenzare, se non addirittura deviare, il percorso di crescita individuale.
Quello di cui un ragazzo (o una ragazza) ha davvero bisogno, specie quando sperimenta confusione o smarrimento, è ASCOLTO e COMPRENSIONE reale, non qualcuno che abbia l’ansia di etichettarlo o di stabilire a priori chi o cosa sembra in un dato momento (che potrebbe condizionarlo irrimediabilmente). Il sentirsi disorientati è parte naturale del processo di crescita; ciò che non dovrebbe mai accadere è essere sottoposti a pressioni manipolative.
Per questo, coinvolgere i bambini nelle attività dei Pride non è appropriato. Non è il loro posto, né il momento giusto: rischia di aumentare confusione e disagio, senza portare alcun reale beneficio alla loro crescita.
Un azzardo del genere getta benzina sul fuoco.
La piramide
Forse è troppo populista, ma ogni società ha un limite. Se cerchiamo di spingere troppo in sù l’asticella di ciò che è socialmente accettabile, la percezione generale sarà quella del rischio, di perdere i punti di riferimento e valori che oggi ci hanno permesso di superare la pura logica dell’istinto.
Così facendo, si ottiene spesso l’effetto opposto a quello sperato: invece di favorire l’inclusione, si alimenta il distacco e la diffidenza. Lo si percepisce ascoltando le reazioni della gente comune, ma sembra che questo resti inascoltato a chi invece dovrebbe alzare le antenne (o forse si bea di tale clamore).
Chi sfrutta strategie ad alto impatto mediatico non cerca di risolvere il problema: cerca visibilità e potere. Per capirlo forse è necessario analizzare la variopinta piramide del Pride: al vertice troviamo la figura di riferimento massima, quella che irradia la sua autorità su tutti i livelli sottostanti e che tiene le redini di tutta la struttura. Ma non è una figura umana, fisica; è un concetto, un movimento, un’astrazione: la politica, non tutta ovviamente, solo quella che ha deciso di far esclusivamente sua la causa chiamandola ‘lotta’ o ‘resistenza’ (perché nelle menti umane richiama un certo fervore istintivo in odore di rivalsa – e di risposta violenta –, che fa estremamente presa sugli istinti delle minoranze che si trovano – realmente o solo pretestuosamente – nella condizione di emarginazione sociale; questo sì, è un esempio lampante di vero populismo).
Subito sotto al vertice troviamo gli esecutori, quelli che organizzano, i capi intermedi diciamo, diretta emanazione del sovrano/faraone di cui sopra. Questi eseguono comandi e incassano i soldi (che immaginiamo non essere due spiccioli) e attendono pazienti e zelanti un riconoscimento del capo (magari una candidatura politica).
In fondo troviamo chi si lascia irretire dalle passioni ideologiche inculcate, quelli che rispondono al richiamo di ‘lotta’ con fervore istintivo. Si tratta di persone che non sono nella posizione di vedere la realtà delle cose (o se lo fanno girano lo sguardo dall’altra parte perché alla fine il meccanismo offre loro un vantaggio – se non economico, emotivo, relazionale o sociale). Come in ogni piramide, chi sta in fondo svolge il lavoro ‘sporco’ su cui si basa tutta la sovrastruttura. Tanto che il vertice necessita di alimentare continuamente quelle frange (‘con cosa’ è una domanda che rivolgo a te).
Se non ci fosse di mezzo un’adozione politica del disagio, se non ci fossero di mezzo i soldi, l’unica via percorribile sarebbe quella di intervenire con una corretta narrazione, e tutti gli sforzi sarebbero concentrati lì.
Il fine di tutto questo – dunque – non è il cambiamento sociale, non è la risoluzione di un problema ma il mero vantaggio politico. Insomma, il tema diventa un pretesto, un’occasione per marcare il territorio. E chi si trova nel mezzo, trascinato dal miraggio di facili risultati, fa da zimbello (a parte i capi; quelli fanno i soldi).
Peccato, ci vorrebbe maggiore lungimiranza.
La forma mentis
Poi c’è il discorso della forma mentis: chi ha avuto diversi tipi di educazione è incline a pensarla in maniera diversa, a volte - ahimé/ahinoi – anche su questo tema specifico. Di fatto gli episodi di violenza arrivano da ambienti cosiddetti ‘bassi’ (espressione che non amo, ma che uso per raggiungere un immaginario collettivo consolidato). L’odio verso il diverso in questi casi proviene – molto probabilmente – da specifici contesti sociali. Ecco che torna preponderante l’esigenza di una narrazione trasversale, corretta e puntuale, veicolata da canali istituzionali forti e percepiti come autorevoli (anche i media qui hanno peso). Non c’è bisogno dell’eccesso; c’è bisogno di sforzo comune, di pazienza, di attenzione a 360 gradi.
Quello di azzerare la discriminazione sull’orientamento sessuale non è un obiettivo che si può raggiungere in poco tempo. E senz’altro non hanno presa gli eccessi organizzati da chi vuole raggiungere fini di tutt’altro genere.
Dovrebbe essere una cosa ovvia. Peccato ci sia necessità di sottolinearlo.
Conclusioni
Alzare troppo i toni, spingersi ogni volta un po’ più in là, è come quando un bambino gioca a pizzicare il genitore: si ride, si sopporta, ma a un certo punto il limite arriva. E lì il rischio è che il gioco smetta di essere tale, e qualcuno si faccia davvero male – spesso senza volerlo.
La vera maturità, anche nei movimenti collettivi, sta nel riconoscere il confine sottile tra provocazione utile e provocazione sterile. Perché la forza di un messaggio non sta in quanto rumore riesce a fare, ma in quanto davvero riesce a farsi ascoltare.
In medio stat virtus*, certo. Ma non indossa costumi appariscenti né usa toni altisonanti.
* letteralmente: la virtù (la verità) sta nel mezzo; massima medievale.
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